Si impara dai propri compagni, ma come si struttura una classe con l’adozione del mutuo insegnamento? INTERVISTA a Daniele Novara – Orizzonte Scuola Notizie
Il mutuo insegnamento, noto anche come “insegnamento reciproco” o “peer teaching”, è una metodologia didattica in cui gli studenti insegnano e apprendono reciprocamente. Questo approccio, che può essere formalizzato o più informale, si basa sull’idea che l’apprendimento può essere potenziato attraverso l’interazione tra pari. Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara, lei più volte ha sostenuto che gli alunni imparano dai compagni, ma quando parliamo di mutuo insegnamento a cosa ci riferiamo?
La domanda è molto interessante perché qua siamo nel cuore della storia della pedagogia, ossia la pedagogia moderna che spacca la tradizione, rispetto a quella antica che era basata sul sistema dei monitori che era un sistema personalizzato uno a uno, e segnala, a partire da Jean Jacques Rousseau, che gli alunni sono una risorsa per sé stessi e sono in grado di attivare dei processi di apprendimento. È la famosa teoria rousseauiana che nel bambino e nella bambina c’è un quid che li rende in grado di avere già delle capacità, su questo nasce la pedagogia moderna.
Pestalozzi, che all’inizio dell’800 è stato uno dei maggiori seguaci proprio di Jean Jacques Rousseau, applica proprio nei suoi centri un metodo che discende da quelle teorie, motivato anche a causa delle difficoltà economiche e quindi al non poter disporre di tanti insegnanti, in pratica fa quello che più tardi farà anche don Lorenzo Milani a Barbiana, cioè utilizza direttamente i bambini e i ragazzi che ne sapevano qualcosa, in grado anche nel merito del mutuo insegnamento in senso stretto, cioè realizzano le cosiddette scuole di mutuo insegnamento che favorivano l’alfabetizzazione a partire da quelli che già sapevano leggere, scrivere e far di conto e che insegnavano agli altri.
Progressivamente l’idea, che è basata sulla concezione che chi sa di più insegna a chi sa di meno, proprio per il successo che riesce ad ottenere diventa anche la grandiosa idea pedagogica, particolarmente cara all’attivismo del primo ‘900, ovvero che siano gli alunni stessi nella loro interazione sociale, nella loro reciprocità, nel loro costruire assieme un percorso di apprendimento, a ottenere i risultati migliori. Specialmente nel ‘900 la pedagogia francese, i cui esponenti di spicco sono Roger Cousinet e Celestin Freinet, è una pedagogia di un modo di fare scuola basata sul mettersi assieme, sul fare qualcosa che non sia semplicemente ascoltare l’insegnante, come nel caso degli antichi monitori da Quintiliano in poi passando per il nostro Vittorino da Feltre.
Questa tradizione viene raccolta tantissimo in Italia dal Movimento di Cooperazione Educativa, in primis il grande Mario Lodi, di cui abbiamo parlato anche con la vostra testata, ma specialmente Don Lorenzo Milani, di cui la scuola di Barbiana è costruita letteralmente sul mutuo insegnamento, sono tantissime le immagini dove i suoi alunni stanno lavorando assieme proprio nella logica di chi sa qualcosa aiuta gli altri. Però dobbiamo distinguere tra l’accezione specifica e l’accezione più generale: l’accezione specifica è proprio questa, cioè chi sa qualcosa la insegna a chi non sa ancora, l’accezione più generale è che faccio lavorare insieme gli alunni perché questo funziona, perché è più efficace che non riferirsi ad una didattica frontale dove c’è solo da seguire pedissequamente le indicazioni dell’insegnante. È logico che quindi l’insegnante deve prendere una posizione più da regista, quello che fa lavorare letteralmente gli alunni in una logica socio-relazionale, che permette di ottenere grandi risultati.
Come possono insegnanti ed educatori favorire il processo di muto insegnamento?
È una questione strettamente pedagogica e didattica. Pensiamo solo alla collocazione dell’aula che in quella tradizionale, gestita da operatori che hanno alle spalle la vecchia immagine della classe di una volta che è frontale, c’è la cattedra e di fronte tutti i banchi. In una recente consulenza un ragazzo mi spiegava che la disposizione nella sua classe di primo superiore, con 28/29 alunni, è con la cattedra e tutti davanti “impacchettati” letteralmente. In aula la prima cosa è disporre l’ambiente, questo è un tema molto caro a Maria Montessori, l’ambiente fa la scuola, quindi come disponiamo la classe.
Ovviamente io sono per una disposizione flessibile, plastica, dove si possono comporre e ricomporre i banchi, le sedie, i tappetoni, lo stare in piedi e seduti, muoversi, alzarsi, ecco che la classe deve essere uno spazio dinamico, non è che necessariamente dobbiamo passare dalla disposizione frontale a quella circolare, rischiamo di riprodurre una cristallizzazione, ma la prima necessità e che l’aula deve essere uno spazio modulabile in vario modo, in modo che da subito gli alunni capiscano, ad esempio, che mettendo i banchi assieme e le sedie assieme incominciano a comporre una precisa disposizione al lavoro comune.
Il secondo elemento è l’abbandono della lezione frontale come metodo principale, se non in certi momenti, purtroppo ci sono casi che è l’unico metodo che l’insegnante utilizza per fare scuola, questo per dire che se noi vogliamo una didattica sociale bisogna che questa abbia anche una sua coerenza. Ricordo quando negli anni ’90 andavo nelle scuole e c’era sempre l’insegnante che mi diceva che non faceva il lavoro di gruppo perché altrimenti si faceva troppa confusione, ma se si fa lavoro di gruppo una volta al mese e logico che quello diventa un momento carnevalesco e non un momento scolastico; noi dobbiamo decidere se vogliamo una didattica sociale o una didattica unidirezionale e individualistica, non individualizzata, è questa la decisione che ogni insegnante, all’inizio del suo lavoro, con i suoi colleghi se possibile, deve decidere per creare un baricentro, che a mio avviso va spostato sui ragazzi.
Poi la terza questione è che il lavoro sociale tra gli alunni, il lavoro di mutuo insegnamento, va predisposto, in questo sono dell’idea che questa fossilizzazione dell’orario di lavoro degli insegnanti, basato unicamente sulle ore di lezione, ad esempio diciotto alla secondaria e ventiquattro alla primaria, e via così, non stia più in piedi. Gli insegnanti fanno molte più ore di quelle che abbiamo appena detto, l’orario di lezione non è l’orario di lavoro, se lo capiamo allora saremo in grado di costruire un orario di lavoro che preveda la preparazione e la progettazione in equipe con i colleghi, in modo che se prepariamo un lavoro siamo in grado di preparare anche gli spazi di lavoro dei nostri alunni, ossia creare situazioni stimolo, situazioni di laboratorio, creare quelle occasioni dove, ad esempio attraverso il mutuo insegnamento, le lezioni sociali e tutta una serie di tecniche molto diffuse ed efficaci, gli alunni imparano a lavorare insieme. Ma se non c’è uno spazio di progettazione è logico che l’insegnante adotta i metodi di quando era a sua volta alunno, cioè parlare e sperare che qualcuno lo ascolti.
Proprio su questo argomento il CPP ha organizzato un convegno con lei e con il Dottor Pellai per rafforzare il valore educativo del gruppo dei pari, ovvero i compagni di classe. Ci racconta in cosa consiste?
Torniamo anche sulla domanda iniziale, io, sulla base dei miei studi e delle mie esperienze, sono assolutamente dell’idea che a scuola si impari dai compagni. Ma per creare questa condizione bisogna anche creare le condizioni di motivazione socio-affettiva, cioè bisogna star bene a scuola, con i propri compagni di classe. Ad esempio che quando un bambino organizza la festa del suo compleanno abbia il desiderio di invitare i compagni di classe, è fondamentale, se non ti vedi con i compagni di classe vuol dire che c’è qualche problemino.
Su questo versante ho chiesto al Dottor Alberto Pellai, che è anche un caro amico, di darci una mano proprio perché lui lavora su questi aspetti socio-psico-emotivi che aiutano a costruire una motivazione, quindi a creare quell’ambiente. Ad esempio fare la gita scolastica all’inizio dell’anno scolastico, anziché alla fine, non può essere un premio ma deve essere una condizione che ti permette di lavorare il meglio possibile lungo tutto l’anno, è un tipo di dispositivo che si usa tantissimo nel nord Europa, dove alla fine di agosto, quando loro cominciano la scuola, vedi nei campeggi, negli alberghi o negli ostelli gli alunni delle scuole che stanno facendo proprio la gita di 3 o 4 giorni che rafforza il gruppo.
Qualsiasi insegnante, facendo la gita di classe, si è accorto che quello che durante le ore di lezioni era una sorta di lavativo, ecco che improvvisamente durante la gita scolastica si trasforma in un grande animatore, quello che si dice in gergo sportivo fa spogliatoio. Sono quelle attività socio-affettive di cui anch’io ho parlato tanto nel mio libro “con gli altri imparo”, un libro antico di cui la prima edizione è degli anni ’80, proprio per costruire la conoscenza, la comunicazione, la capacità di dialogare, la capacità di gestire i conflitti, insomma tutte quelle azioni che permettono di andare a scuola con un ambiente vivo, emotivamente caldo, e su questo abbiamo chiesto la collaborazione di Aberto Pellai.
Poi io con tutti i miei collaboratori del centro, che sono espertissimi su come creare un convegno di servizio dove gli insegnanti alla fine si portino a casa proprio delle nuove competenze, lavoreremo molto sul ricostruire cosa vuole dire mutuo insegnamento, così come ne abbiamo parlato all’inizio di questa conversazione, ma anche come applicarla nei vari ambienti scolastici, ambienti trasversali che possono andare dalla scuola dell’infanzia, alla scuola primaria, fino alla scuola secondaria di primo e secondo grado. Dappertutto è necessario costruire una didattica sociale, perché in questo modo attiviamo la motivazione, riduciamo l’abbandono scolastico e anche la demotivazione scolastica. Se un alunno va contento a scuola è un vantaggio per tutti, ce la può fare, è felice e quindi riesce anche a concentrarsi maggiormente.
Un’ultima domanda. Anche nel mutuo insegnamento c’è bisogno di un ritorno per verificare l’efficacia dell’azione adottata. Come avviene la valutazione nel mutuo insegnamento?
Qui bisogna partire da un presupposto, ovvero su cosa valuta la scuola, è questo il problema, valuta le nozioni, valuta la capacità di ripetere le cause della rivoluzione francese o il teorema di Pitagora e quant’altro? Ritengo che la scuola deve valutare i processi di apprendimento e qual è il modo migliore per acquisirli. Stare con i compagni e imitarli non è questione di copiare ma di imitarsi reciprocamente per potere acquisire quello che gli altri magari hanno già colto, hanno già capito, sanno già applicare, e io non ancora. Prendiamo ad esempio l’espressione algebrica, può capitare che l’insegnante continui ad insistere su questo versante di questa espressione, ma poi improvvisamente interviene un compagno di classe che lo spiega in quattro e quattr’otto e il compagno capisce.
Come diceva letteralmente la Montessori, mi permetto di fare una citazione della nostra grande collega che ci sta alle spalle, “gli insegnanti sono incapaci di far capire a un bambino di tre anni una quantità di cose che un bambino di cinque gli sa far benissimo intendere, vi è tra loro una naturale osmosi mentale”, questa è la questione. Allora, se la scuola valuta la capacità di apprendimento e non la pura e semplice ripetizione di contenuti, di formule e di nozioni, ecco che il problema della valutazione non è più semplicemente dire di non farli lavorare insieme perché dobbiamo capire come lavorano loro, ma è il mettere a disposizioni prove di valutazione che siano prove applicative, dove non ha importanza il lavoro pregresso, ovvero se un lavoro individuale o un lavoro sociale, anzi se è un lavoro sociale è meglio perché ha imparato di più.
Quindi ribadisco ciò di cui abbiamo già parlato in altre occasioni, la valutazione evolutiva, o formativa, come diceva il Ministero fino a qualche anno fa, adesso sembra che abbia cambiato idea, è una valutazione che non registra pedissequamente le crocette giuste rispetto a quelle sbagliate, ma registra le capacità di applicare le conoscenze in un ambiente concreto, reale, non in un ambiente artificiale come possono essere, ad esempio, le prove invalsi o anche la semplice interrogazione, ma come può essere un giornalino realizzato insieme, un’opera teatrale, un video realizzato insieme, una lettera collettiva, insomma qualcosa che coinvolga i ragazzi un un’operazione concreta, che poi erano i principi della scuola attiva.
È questo il passato che dobbiamo ripristinare e non il passato di Giovanni Gentile, dell’accademismo e della scuola piramidale, che non ci porta da nessuna parte e ci fa fare un giro archeologico in un museo scolastico che per fortuna abbiamo lasciato alle spalle ed è bene lasciarlo lì. Ma la nostra scienza, quella pedagogica e non quella dei relitti, ci restituisce tanti indizi di una possibilità come comunità scolastica di restituire protagonismo ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze. Allora io aspetto tutti a questo nostro ulteriore appuntamento perché all’inizio della scuola darà proprio agli insegnanti e alle insegnanti la possibilità di trovare quegli spunti motivazionali per restituire alla professione il fascino e l’entusiasmo che si merita.