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‘Sono un’esordiente attempata che ha fatto per tutta la vita la dentista’


Una scena del film L'arminuta, regia di Giuseppe Bonito

Un romanzo molto amato dal pubblico L'Arminuta (Einaudi), che ha ricevuto tanti premi, tra cui il Campiello, che ora è diventato un film, con un cast di attori sconosciuti, ma con una delicatezza e un'aderenza al libro che ha permesso ai lettori di ritrovarsi nei personaggi e nelle atmosfere di un Abruzzo Settanta anni, tra la costa e l'entroterra aspro. Protagonista è una tredicenne di cui non si dice mai il nome, cresciuta con una coppia di genitori adottivi, che all'improvviso viene restituita (è questo il significato di “arminuta”) alla famiglia naturale che ha altri cinque figli. Tra questi Adriana, dieci anni, con la quale instaurerà subito un legame profondo. Il motivo di questa restituzione è ignorato dalla ragazzina, che passa da una casa borghese dove era ricoperta di affetto e attenzioni in una condizione di povertà e di anaffettività. Dice l'autrice Donatella Di Pietrantonio:
«Sono molto contento del risultato. Accetto quell'inevitabile dose di tradimento che c'è in una trasposizione
cinematografico, ma il regista Giuseppe Bonito ha fatto un ottimo lavoro: i temi del romanzo sono stati trattati
con grande sensibilità e rispetto. Lui si era innamorato subito di L'Arminutaben prima che avesse successo, e per
farne un film ha dovuto superare diversi ostacoli, non ultima la pandemia».
Lei ha saputo del successo abbastanza tardi. Come hai iniziato a scrivere?
«Mi è sembrato un tentativo strano, quando è uscito il mio primo romanzo, Mia madre è un fiume, avevo quasi 50 anni. In realtà l'ho sempre scritto senza essere bambina, ma in segreto. E la passione per la letteratura non mi ha mai abbandonato».
Eppure nella vita è successo tutto l'altro…
«La mia era una famiglia di contadini, e quando ho dovuto decidere il percorso universitario ho optato per
una professione sicura e mi sono iscritto a Odontoiatria. Ho sempre fatto il dentista pediatrico a Penne, dove
vivo. E ancora oggi divido la mia settimana esattamente in due: una parte nello studio medico, l'altra a scrivere o
a girare l'Italia per incontri e festival».
Quando hai capito di essere una vera scrittrice?
«Già con il primo romanzo ho vinto il Premio Tropea. Ma ancora non ci credo davvero. La vera conferma è arrivata con L'Arminuta che, oltre ad aver vinto tanti premi, è stato anche molto tradotto».
Lei in entrambi i suoi lavori mostra un particolare interesse per il mondo dell'infanzia…
«Nel mio lavoro di dentista ho sempre avuto a che fare con i bambini e scrivere di loro me è venuto spontaneo. Non mi è difficile entrare in empatia con quelle fasi della vita che sono rimaste dentro di me e con cui continuo a confrontarmi».
L'Arminuta è ispirata a una storia vera?
«Mi è capitato di conoscere persone che erano state cedute dalle loro famiglie povere e da numerose coppie sterili che desideravano un bambino. Ciò che ho inventato è la restituzione, che credo sia l'aspetto più interessante, perché la mia protagonista vive un secondo abbandono. Volevo entrare nella mente di un adolescente che perde ogni punto di riferimento e capire come si può sopravvivere vivendo un trauma così profondo».
Perché gli anni Settanta?
«Perché qui in Abruzzo c'era un forte disagio socio-economico e culturale. Certo, anche oggi ci sono situazioni di abbandono più o meno riconoscibili, famiglie in cui i figli vengono trascurati. La madre dell'Arminuta non ha gli strumenti per far crescere i figli come persone, più che assente è imprevedibile, le due figlie restano in attesa di un gesto di attenzione e di cura».
Tornando al film, lei ha anche collaborato alla sceneggiatura…
«Sì, ho collaborato con la sceneggiatrice Monica Zappelli, ero un'assoluta principiante. Ma è stato bello, ho imparato tanto e sono felice di aver dato il mio contributo».
E poi è uscito anche il seguito di L'Arminuta, Borgo Sud, finalista al Premio Strega.
«Inizialmente la mia intenzione era quella di raccontare che ne sarebbe stato delle due bambine protagoniste
già nel primo romanzo. Poi ho sentito che dovevo chiuderlo. Ma i personaggi tornarono a bussare alla mia mente, volevo capire che cosa rimaneva dei loro traumi infantili nella vita adulta».





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