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Settanta anni di Milan: la dynasty Maldini in rossonero finisce qui


Il romanzo inizia col capostipite Cesare nel lontano 1954. Poi l'era di Paolo, grandissimo come difensore prima e vincente anche come dirigente poi. E, infine, Daniel, che ha salutato adesso la compagnia, destinazione Monza, chiudendo un'epoca

Fine di un'era. Daniel si trasferisce definitivamente al Monza e della dinastia Maldini al Milan non restano che i ricordi. Settant'anni di memorie, dal 1954 a oggi, cioè da quando il capostipite Cesare sbarcò a Milano dal quartiere Servola di Trieste e cominciò a costruire, passo dopo passo, quella che è diventata un'autentica leggenda del calcio italiano. Cesare, Paolo e Daniel: nonno, papà e nipote. Una storia di famiglia, dove i valori trasmessi attraverso la genetica si sono fusi perfettamente con quelli di un club e si sono trasformati in una cosa sola. Sono tocchi di magìa che capitano una volta ogni secolo, più o meno, e per questo bisogna celebrarli come fossero i passaggi di una cometa. Cesare arrivò con la valigia dell'emigrante nella grande città, in pieno boom economico, e ne rimase affascinato. Di lui Bela Guttmann, allora tecnico rossonero, disse: “Maldini è un giocatore da Milan e giocherà nel Milan”. Era una sorta di firma sul passaporto del successo, perché Guttmann, all'epoca, era un santone del calcio internazionale. Cesare, di mestiere, faceva il difensore. Terzino, per la precisione. Si praticava il “sistema”oo WM, al tempo. Lui era abile nell'anticipo e nell'impostazione. Se c'era da avanzare palla al piede, non si faceva scrupoli: procedeva oltre la metà campo, cosa che raramente si vedeva in quegli anni, e dettava tempi e ritmi dell'azione. Aveva piedi buoni, non lesinava qualche randellata (“se c'era da darle, non mi tiravo mica indietro”) e, soprattutto, incantava per lo stile: alto, elegante, testa alta, padrone del campo. Nel 1963 alzò nel cielo di Wembley la prima Coppa dei Campioni del Milan. Sconfitto in finale il Benfica di Eusebio. E Cesare ebbe un ruolo fondamentale in quella vittoria, perché, avendo Rocco sbagliato la marcatura sul fuoriclasse portoghese, lui, da capitano, si prese la responsabilità di modificare le indicazioni dell'allenatore e il corso della partita cambiò.



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