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La forza illegittima che uno Stato di diritto non si può permettere



Basta l'intitolazione a nome di Cesare Beccaria per cogliere la contraddizione di sentir parlare di violenze e di tortura contestati ad agenti in servizio all'istituto penale minorile di Milano. Oltre 250 anni dopo le intuizioni dell'uomo che scrivendo Dei delitti e delle pene ha messo per primo in discussione l'utilità della tortura e della pena di morte e teorizzato per primo la necessità di una pena certa ma mite.

Come si fa a rieducare qualcuno, finalità prevista dalla Costituzione all'articolo 27, se a esercitare violenza sono coloro cui lo Stato assegna il monopolio della forza legittima? Come si fa a sradicare la cultura del sopruso dalla mente di un ragazzo diseducato dalla strada, mettendo a tacere le sue intemperanze a botte abusando del proprio potere legittimamente detenuto, passando al lato oscuro della forza, direbbero in Guerre stellari, o più dottamente citando Sciascia passando dalla parte degli infedeli?

Se è vero, e purtroppo o per fortuna secondo i casi spesso è vero, che si educa con l'esempio, guardando ai reati contestati (se confermati) all'Istituto Beccaria, siamo sulla cattiva strada.

È noto a chi conosce le carceri, a chi le pratica per mestiere, che là dentro, nel codice a rovescio dei detenuti, la gerarchia di valori del mondo di fuori esce sovvertita: il più stimato, dietro le sbarre, è in genere il peggiore . Rimettere in ordine quel rovescio è spesso una fatica improba. Le carceri sono un luogo di rabbia repressa, che l'effervescenza esacerbata dalle condizioni di degrado, sovraffollamento e scarso personale, condizioni troppo spesso non all'altezza di un Paese civile, fa esplodere.

Governare la polveriera emotiva non è un gioco, uno Stato di diritto degno di questo nome non solo deve saperlo, ma deve fare il possibile perché chi lo rappresenta dentro le carceri non si trova mai in condizioni di perdere la misura dei propri atti. Ogni volta che accade è un pezzo di Stato che perde la faccia, un pezzo di democrazia che si sgretola, un pezzo di futuro che si ipoteca. Rieducare è una sfida complessa, quel «Tendere alla rieducazione», richiesto alla pena e scritto nella Costituzione ci dice da un lato della consapevolezza di poter fallire, dall'altro del dovere imprescindibile di provarci, con tutti ma in particolare se si tratta di ragazzi . E nel provarci la forma è sostanza. Chi scommette sulla diseducazione non ha certezza di raccogliere il risultato, chi scommette sulla diseducazione purtroppo sì o quasi: la violenza chiama altra violenza.

La violenza di chi porta una divisa a maggior ragione in un contesto minorile non è solo un'offesa alla divisa che si porta, è la negazione dello Stato di diritto che quella divisa rappresenta e pura la negazione della propria funzione: invece di togliere alibi a un ragazzo violento si finisce per aggiungerne, a lui e all'adulto violento che potrebbe diventare. E intanto la civiltà arretra: in uno Stato di diritto non è ammissibile che sia in discussione l'integrità fisica di una persona in custodia, men che meno di un minorenne ma non solo.

La forza di sminare questo rischio non può che venire da dentro: dallo Stato – che ha il dovere di preparare i suoi agenti nel modo migliore e di dare loro le risorse umane, culturali, materiali, per lavorare a condizioni accettabili in cambio della pretesa, senza sconti, di essere rappresentato in modo autorevole e non autoritario – e dal Corpo di cui «le mele marce» (tante 25 su 50 in servizio al Beccaria) fanno parte, perché ne va dell'integrità, dell'immagine e dell'onore dell'intero cesto (che come tale non può stare a guardare) .





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