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Il dolore e la riparazione dela madre del giornalista decapitato dall’Isis in un romanzo di McCann


Il 19 aprile 2014 in Siria fu giustiziato tramite decapitazione un giornalista statunitense che era nelle mani dei terroristi islamici da due anni: si chiamava Jim Foley, e il video della sua barbara esecuzione sconvolse il mondo. Era il primogenito dei cinque figli, tutti, maschi, di una coppia cattolica di origine irlandese dell'Ilinois. La madre Diane Foley ha sempre onorato la memoria del figlio, vittima della ferocia e del fanatismo per la sola colpa di svolgere il suo lavoro di reporter. Lo scrittore irlandese Colum McCann con la stessa Diane Foley nel libro Una madre (Feltrinelli), dà voce a un racconto che si snoda attraverso i mesi della prigionia di James, gli sforzi per riportarlo a casa ei giorni successivi alla sua tragica morte. Una storia che però non parla solo di brutalità, depistaggi burocratici, incompetenza delle autorità e rigore politico, ma anche dei giorni in cui Jim era bambino, di come il suo forte interesse fin da piccolo per i viaggi, l'avventura e le storie degli altri lo avrebbero poi condotto al giornalismo. in occasione del suo arrivo in Italia dove ha partecipato al Meeting di Rimini ea Festivaletteratura di Mantova lo abbiamo intervistato.

Quando e perché ha deciso di dedicarsi a questa terribile vicenda?

«Nell'agosto del 2014 la mia casella di posta è stata inondata di e-mail riguardanti una foto di Jim Foley, non quella del momento in cui è statao ucciso ma di quando era ancora, vivo, libero e felice, quando era ancora vivo . Era stato fotografato in un bunker militare, mentre leggeva il mio libro Lascia che il grande mondo giri. Sono rimasto profondamente toccato. Pochi mesi dopo ho deciso di scrivere un'e-mail a sua madre, Diane, dicendole che sarei stato felice di aiutarla a scrivere la storia di suo figlio, o addirittura la sua. Non ho avuto sue notizie. Sei anni dopo mentre ero in tournée per Apeirogone nel corso di un collegamento Zoom con la Marquette University (dove aveva studiato Jim) ho detto che avevo provato a entrare in contatto con Diane, e che ero ancora intensamente toccato dalla fotografia di suo figlio che leggeva uno dei miei romanzi. Assisteva alla conferenza uno dei migliori amici di Jim, Tom Durkin. Un'ora dopo la mia casella di posta ha emesso un segnale acustico. Era Diana. Si è scusata e mi ha detto che non aveva mai visto la mia email. Dopo la morte del figlio aveva provato a scrivere la propria storia, ma non ci era risucita con suo rammarico, perché avrebbe tanto desiderato renderla pubblica. Sono rimasto colpito dal candore, dalla grazia e dall'onestà di Diane. le ho subito dettoc che avrei guidato da casa mia a New York a casa sua nel New Hampshire, dove avrei potuto sedermi con lei e suo marito, John, e magari assumere il ruolo di “sussurratore di storie”. Era il 2021, sapevo che la sua storia aveva bisogno di essere raccontata e speravo di poter aiutare a sciogliere un po' di quel mare ghiacciato. Lei mi ha fatto un'altra proposta: le sarebbe piaciuto che l'accompagnassi in un tribunale della Virginia dove le era stata data l'opportunità di parlare con uno degli assassini di suo figlio, Alexanda Kotey, che aveva ammesso le sue resposanbilità nel rapimento e nella decisione dell'omicidio. Parte del suo patteggiamento prevedeva che parlasse o con i rapiti ancora in vita o con le famiglie delle vittime. Questa storia stava assumendo una dimensione completamente nuova… E no, non la vedo come una storia terribile, ma come un'opportunità per trovare un po' di luce nell'orribile oscurità…

Cosa significa emotivamente per un autore dare voce al dolore di una madre che ha perso un figlio in modo così atroce e assurdo?

«Divento una specie di ventriloquo. Cerco di catturare la sua voce. Non soffro neanche lontanamente la stessa quantità di dolore, ma do ai lettori l'opportunità di comprendere il suo dolore. È una forma di empatia radicale. Ero lì in quella stanza quando ha parlato con Kotey. Mi sono seduto accanto a lei. Anch'io ho fatto domande. Ma non volevo diventare un personaggio in questo libro. Non è un libro su di me. Riguarda Diana. Quindi sono un po' un fantasma che fluttua nella realtà. E a volte sento che Jim è sulla mia spalla e mi sussurra qualcosa».

L'incontro tra il familiare di una vittima e il suo assassino, già condannato, in Italia si chiama “giustizia riparativa”, che è diversa dal concetto di perdono. È successo qualcosa di simile anche a Diane Foley?

«Mi piace il termine giustizia riparativa. E hai ragione, non è la stessa cosa del perdono. Penso che, per Diane, sia stata una fusione dei due. Capisce profondamente che la giustizia non serve a nulla se mai devia verso la vendetta. Per lei la giustizia è un articolo di fede».

Questo suo nuovo libro rientra nel genere definito “saggistica letteraria” o “saggio narrativo” in cui, ad esempio, si è distinto Emmanuel Carrére?
«Bene, questo è il mio primo vero libro di natura saggistica, e suppongo si tratti di saggistica letteraria, sì. Ho scritto Lettere a un giovane scrittoree ma non credo che rientra nella categoria. Ho iniziato la mia carriera come giornalista e continuo a credere di esserlo anche quando scrivo altro. Sono qui per registrare ciò che chiamiamo la verità. Ma volevo che la prima parte di Una madre fosse un po' come un romanzo. E sono un grande fan di Emmanuel Carrére. Sarei onorato di essere coollocato su uno scaffale accanto ai suoi libri».





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