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San Gennaro e quel sangue «impaziente di risurrezione». Il racconto di Vittorio Messori



19 settembre 2016: in primo piano l’antico busto di San Gennaro nel Duomo di Napoli e il cardinale Crescenzio Sepe espone alla venerazione dei fedeli l’ampolla del sangue (foto Ansa)

Pubblichiamo il reportage uscito sul mensile Jesus a firma di Vittorio Messori che il 19 settembre 1985 nel Duomo di Napoli assistette da vicino al celeberrimo “miracolo” della liquefazione del sangue di San Gennaro. Ecco il suo racconto.

«Professore, aveva ragione», dico, quando tutto è finito, a Ennio Moscarella che sta al mio fianco. «C’è davvero un pregiudizio negativo su questi devoti napoletani: io qui non ho visto che fervore, ma di quello giusto; religiosità viva, ma nessun fanatismo. Niente, insomma che possa far sospettare chissà quale superstizione pagana o qualche culto barbarico del sangue».

Moscarella, uno dei maggiori studiosi di san Gennaro e del suo culto, l’out-sider che da anni insegue le tracce storiche e archeologiche di quel mistero, sospira: «Che vuoi farci, dottore? La diffamazione è il prezzo che noi napoletani paghiamo per avere avuto questo dono grande. Anzi, sa che ha detto qualcuno? “Solo Napoli ha san Gennaro, perché solo Napoli sarebbe stata incapace di specularci sopra”».

Non so, ovviamente, che ci
fosse attorno al “miracolo del sangue” prima del ’66, quando
in diocesi giunse Corrado Ursi.
In effetti, da quando è arcivescovo
di Napoli, il cardinal Ursi
non perde occasione per dare
un radicamento biblico, strettamente
cristologico, al celeberrimo
prodigio. Egli, tra l’altro, preferisce chiamarlo “segno”
piuttosto che “miracolo”;
pur
non esitando, è ovvio, nell’attribuire
a un intervento soprannaturale
ciò che si verifica nelle
due ampolle. Molti Papi si spinsero
più in là e lo dissero Miracolo,
con la maiuscola, come
Pio XII
. O come Giovanni
XXIII
che confidò di essere
«molto, molto devoto» di san
Gennaro
e di essere venuto apposta
a Napoli per assistere al
prodigio. Anche Giovanni Paolo II non è di certo indifferente
al grande vescovo martire, che
proclamò patrono di tutta la
regione conciliare campana.

Per la predicazione del cardinal
Ursi lo scioglimento – anzi,
meglio, la “reviviscenza” – di
quel sangue, è legata direttamente
alla risurrezione del Cristo:
un anticipo, un’indicazione
della sorte di vita eterna che è
promessa a ciascuno.
Come
scrisse il bolognese cardinal
Lambertini, futuro papa Benedetto
XIV: «C’è a Napoli un
sangue che è impaziente di risurrezione».

Ursi è giustamente severo
quando si tratta di reprimere la
tendenza a “strologare” su quel
segno, traendone presagi che,
tra l’altro, mostrano storicamente
poca attendibilità: le vie di Dio non sono le nostre, inutile
cercare di indagarle.
Semmai,
l’impegno dell’arcivescovo
è di spingere i fedeli non a
interrogare la cabala, ma a trarre
esempio dal messaggio di
coerenza di san Gennaro,
pronto
a subire volontariamente le
conseguenze estreme della sua
fede. Una coerenza che, ad
esempio, dovrebbe convincere i
devoti a «rispondere al sangue
con il sangue»
(come dice uno
slogan della diocesi), donando
il proprio plasma per i malati
bisognosi della città
. E, in effetti,
un’autoemoteca staziona davanti
al duomo, incitando i fedeli
a riempire il loro flacone.

Il diciotto settembre, vigilia
del martirio del santo, con
un’austera cerimonia si provvede
ad accendere una fiaccola
della fede sulla piazzetta della
cattedrale. L’olio è offerto ogni
anno da una diversa città della
Campania, che onora così il suo
patrono.
C’è un via vai di gente
ma composta, del folclore vistoso
di un tempo non resta che
qualche bancarella di dolciumi
tradizionali e di giocattoli.

Dentro, il duomo è un’isola
di pace, di pulizia, di efficienza
nella città massacrata da un
traffico pazzo («Il rosso dei semafori?
Per noi è solo un consiglio
… », come dice un autista di
taxi) e ancora ingombra di ponteggi
rugginosi dopo il terremoto
del 1980. Ci furono
danni anche qui, si chiuse il
grande complesso della cattedrale,
ma i restauri sono stati
tanto tempestivi e attenti che il
forestiero non trova più alcuna
traccia del disastro.

La gente della vigilia è dunque
gente tranquilla: sosta nella
cappella del santo o scende
nella cripta sotto l’altare maggiore
dove è conservato ciò che
resta delle sue ossa. Scorgo,
inginocchiate, alcune coppie di
fidanzati o di giovani sposi.
«Vede?», mi dice sorridendo
bonario un amico napoletano
che mi accompagna, «anche i
giovani sono devoti, come i loro
vecchi. Solo che non usano più
chiamare Gennaro i bambini.
I
pochi che sono ancora battezzati
così, si affrettano a farsi
chiamare “Genny”: chissà, forse
Gennaro gli sembra troppo
locale, eccessivamente meridionale.
Al momento del bisogno,
però, tutti qui a invocarlo coJ)”le
sempre fecero i loro antenati».

Eccoci al giorno dopo, alla
ricorrenza del dies natalis del
santo. Di primo mattino, nei
saloni dell’arcivescovado, ci
viene incontro, cordiale e imponente,
il cardinal Ursi. A 77
anni conserva aspetto e forze di
un quarantenne: «Ma sì, ringraziandone
Dio», conferma, «forse
della salute abuso, ogni giornata
è per me di visita pastorale, sempre in giro per le parrocchie.
Usciamo adesso da un
sinodo diocesano durato ben
17 anni. Speriamo di vederne
presto i frutti…».

Per questo giorno solenne, la
nobiltà è tornata nelle sale che
testimoniano dei tempi in cui il
cardinale arcivescovo era un potente tra i potenti. C’è un
gruppo di nobili venuti da Roma,
ci sono i membri della “Deputazione”
del santo in abito da
cerimonia, una fascia rossa che
cinge il petto, decorazioni al
bavero.

Si forma il corteo: monsignori, canonici, seminaristi ci precedono cantando. Per corridoi
e cappelle sotterranee, attraversando i resti mirabili delle basiliche che hanno preceduta l’attuale, sbuchiamo nella cattedrale gremita di folla: almeno
cinquemila persone diranno poi
i competenti, osservando che
da anni non si vedeva una calca
simile. Svoltiamo, penetrando
nella cappella magnifica del
santo, costruita nel primo Seicento a compimento del voto
per la peste del 1526
. All’ingresso, l’antica iscrizione latina
che la dice lunga sulla devozione locale: «A Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla
guerra, dalla peste e dal fuoco
del Vesuvio per virtù del suo
sangue miracoloso, consacra».


La polizia, presente in forze,
fatica un poco a trattenere la
folla che vorrebbe accodarsi al
corteo del cardinale, giungere
con lui sin dietro l’altare della
cappella dove, con un complesso sistema di doppie chiavi, si
aprono le ante di legno e di
acciaio di un armadio e di una
cassaforte. C’è emozione nel
gruppetto di noi, happy fews,
cui è dato il privilegio di stare
accanto al cardinale in questo
momento sempre solenne per la
Chiesa napoletana. Un monsignore al mio fianco mi sussurra
che, durante il consueto ottavario di preghiera che precede il
19 settembre, il sangue è stato trovato già sciolto almeno un
paio di volte.


La cassaforte è finalmente
aperta, l’arcivescovo tende le
mani ad afferrare il reliquario
famoso.
Tra elementi gotici e
barocchi di finissima lavorazione
(fiori in argento e oro che hanno sostituito la ghirlanda di
fiori freschi di un tempo), spicca
il vetro circolare della teca.
Dentro, le due ampolle che il
professor Moscarella ha stabilito,
in modo che sembra irrefutabile,
essere antiche, con ogni
probabilità del IV secolo (il
martirio è fissato dagli storici
nel 305, a Pozzuoli).
C’è
un’ampolla più grande, panciuta,
e accanto, accostata in diagonale,
un’altra più piccola, di
forma slanciata, ma che di sangue
contiene ormai soltanto poche
tracce. La luce è poca, sul
vetro si proietta la luce di una
pila. «È già sciolto», si sussurra
in giro. Già sciolto, come dicono,
o sciolto istantaneamente
(si è spesso verificato) quando
il cardinale ha afferrato il reliquario? Sembra questa l’interpretazione
cui Ursi accennerà
nella sua omelia. Ma poco importa,
in fondo: ciò che conta è
che anche questa volta il “segno”
di vita, di risurrezione è
stato dato.
Forse la voce è già
giunta al di là dell’altare, dove
la folla applaude; o, magari,
applaudono solo per festeggiare
l’apertura della cassaforte.


Ora, il cardinale mostra a noi
testimoni le ampolle, inclina. il
reliquario: il sangue è davvero
liquefatto,
si muove agevolmente,
ma parte è ancora solidificato
contro le pareti e al
centro c’è quello che la tradizione
chiama “globo”, un grumo
circolare solido.
A voce ancora
più bassa (il cardinale, lo
dicevamo, non vuol sentir parlare
di “presagi”) mi spiegano
che, per il popolo, il sangue
trovato già liquido è “segno
fausto”, di protezione particolare
in momenti difficili. Ma si
sa che il 19 settembre 1980 il
sangue si sciolse con presagio
detto “ottimo” e invece il 23
novembre giunse il terremoto a
Napoli e in mezzo Sud con tremila
morti.
Gli irriducibili, naturalmente,
dissero che sarebbe
stato ben più grave senza la
protezione specialissima del
santo. E ricordano che non si
sciolse il 5 maggio del 1976
(ricorrenza della traslazione a
Napoli dei resti di Gennaro) e il giorno dopo arrivò un altro terribile
terremoto: ma in Friuli, a più di mille chilometri di distanza.
È stato calcolato che, su
158 calamità che hanno colpito
Napoli tra il 1661 e il 1947,
solo 65 volte il sangue diede un
“segno infausto”.

Col cardinale, i dignitari, i
seminaristi, riformiamo il corteo,
fendiamo la folla nella cappella
e poi nella navata centrale
della cattedrale, tra i cordoni
della polizia e l’applauso incessante
della gente. Sulle teste si
vede ballonzolare lo splendido
“imbusto” del 1305, il busto
d’argento tempestato di gemme
e che contiene frammenti di
cranio del santo. Dietro, il cardinale
tiene alto il reliquario.

Nell’omelia anche la denuncia della camorra

Guardo i visi dei devoti: facce
intense, sguardi che sprizzano
devozione e gioia di avere a
protettore un santo tanto famoso
e potente, ma nessun grido,
salvo una voce isolata, di donna:
«Viva san Gennaro! Viva
Gesù e Maria!». Qualcuno
piange, ma con pudore, in silenzio.
Tutti battono le mani,
l’applauso – gioioso, intensissimo
– è amplificato in mille echi
dal grande soffitto in legno intagliato
che è tra le cose più
emozionanti del barocco meridionale.
E le “parenti” di san
Gennaro, quelle vecchine che
inciterebbero il santo a «fare il
miracolo» magari insultandolo
se tarda un poco? Tutto sparito
da moltissimi anni; o magari
inventato,
come mi assicurano i
competenti. Non solo sembra
che il folclore paganeggiante sia
invenzione di libellisti faziosi,
ma, analizzando i contenuti
delle preghiere, delle litanie, dei
canti popolari, si ha la sorpresa
di constatare quanto siano anche
teologicamente “corretti”,
cristologici, per nulla offensivi  
anche per una sensibilità moderna,
che resta semmai affascinata
positivamente da qualche
invenzione popolare.

Ora, all’altare maggiore inizia
la liturgia, si leggono pagine
bibliche, si intonano le litanie ai
molti santi compatroni, con
Gennaro, di Napoli. Non si dimentichi,
nel tentare un bilancio
di questa città contestata,
che non c’è Chiesa al mondo
che abbia in corso tanti processi
di beatificazione e di canonizzazione.
Il cardinal Ursi parla, a
lungo, con qualche accenno anche
alla cronaca dolorosa di
questi mesi, tra camorre e scandali
di vario tipo. Al termine
dell’omelia, lo stesso arcivescovo
dà l’annuncio: «Per la seconda
volta da quando sono tra
voi, il sangue si è sciolto tra le
mie mani…». Come tradizione
vuole, un membro della deputazione
sventola il fazzoletto verso
il popolo che replica riapplaudendo
ancora, ancora più a
lungo, con ancor maggior fervore. Ma, neppure ora, dal mio
posto che mi permette di tenere
d’occhio tutta la cattedrale,
scorgo qualche segno di intemperanza.
Il battere delle diecimila
mani continua, mentre il
cardinale fa il giro del presbiterio
mostrando le ampolle.
Quando è davanti a me, mi accorgo che lo scioglimento è
progredito; ora anche il “globo”
è quasi del tutto sciolto,
sulla superficie sono comparse
quelle bollicine che fanno dire
tradizionalmente che «il sangue
bolle».

Ancora una volta – e per otto giorni a venire – Napoli
ha avuto il suo segno. Il Cielo
sembra avere riconfermato il
suo enigmatico rapporto con
questa città di grandezze e di
miserie, di nobiltà e di abiezioni.
Il mistero del “segno”
continua.

E continua anche, a Dio
piacendo, la devozione di un popolo che, malgrado tutto,
resta attaccato al suo «Sante
belle»
che, dicono le antiche
preghiere, «è gran campione di Giesù Cristo, stannardo della
Santa Fede, primmo cavaliere
della Chiesa, ricco de li done
della santissima Trinità e de
l’Immacolata Concezione».





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