Economia Finanza

L'Europa dell'oblio sulle stragi islamiste e Israele che non dimentica così in fretta il terrore




Come abbiamo potuto dimenticare l'orrore? Ancor più delle metropolitane fatte saltare in aria, delle torri tirate giù come in un action movie di Hollywood, delle bombe piazzate su treni e mezzi pubblici all'ora di punta, come abbiamo potuto dimenticare la brutalità inculcata da una lettura estremista del Corano nelle menti di terroristi che in nome di Allah, sognando un paradiso di vergini, hanno seminato terrore nelle nostre città, versando il sangue degli infedeli su strade che oggi calpestiamo senza più memoria? Dove sono finiti la rabbia e l'orgoglio, per dirlo con le parole di Oriana Fallaci, che dopo ogni stramaledetto attentato hanno giustamente pervaso tutti noi ma che, passate poche settimane, sono scemati in fastidiosi brutti ricordi? «Je suis Charlie», urlavamo per le strade d'Europa l'indomani della mattanza nella redazione di rue Nicolas Appert, a Parigi. Oggi quasi non pensare più ai vignettisti maciullati a colpi di Ak-47. Come non pensare più alle famiglie falciate sulla lungomare des Anglais di Nizza, ai turisti ammazzati sulle spiagge di Susa o nei locali di Sharm el-Sheikh o all'immonda carneficina che, in una sera di novembre, si è consumata tra le poltrone del teatro Bataclan di Parigi.

È vero: pur avendo i soldati di Putin valicati i confini dell'Unione, noi europei stiamo vivendo un momento di relativa pace. Questo, però, non ci giustifica. Non giustifica l'aver voltato le spalle dall'altra parte. Perché, prima o poi, l'orrore tornerà a farci visita. E ci troverà, ancora una volta, impreparati. Come è successo quando ci hanno colpito prima i jihadisti di al Qaeda e poi le bandiere nere dell'Isis. Permetterglielo ancora una volta significherebbe tradire chi è già morto sotto i colpi della guerra santa e abbandonare i nostri figli all'odio islamista. Cos'altro ci serve ancora per capire che il nemico non è sconfitto, che la ferocia può riesplodere da un momento all'altro? E dire che l'orrore che abbiamo provato sulla nostra pelle non è poi così lontano. Se ci voltiamo, lo possiamo ancora guardare dritto negli occhi. Forse, possiamo ancora sentirne il sapore. Il sapore del sangue. E, se abbassiamo la voce fino a fare silenzio, possiamo ancora ascoltare le urla di dolore.

Sono incubi. Fantasmi del passato. I ventun cristiani copti decapitati in Libia, ripresi dalle telecamere per mandare un messaggio a noi comodamente seduti in poltrona: “Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a sud di Roma. Non era un film splatter, quello. Era tutto vero. Come lo era il sangue che ha macchiato di rosso l'altare della chiesetta di Saint-Étienne-du-Rouvray, il sangue di padre Jacques Hamel sgozzato come agnello sacrificale da due fondamentalisti certo del Corano in un ristorante di Dacca e passati alle armi al primo tentennamento. Non erano parole al vento, sebbene lì fossero finite, i racconti degli immigrati in rotta verso le coste siciliane sopra un barcone troppo carico per portarli tutti nella terra promessa Alla fine i cristiani vennero sacrificati: gettati dai musulmani a morire nel Mediterraneo. Tutta la brutalità di quella stagione degli orrori è stata catturata in una fotografia: un pupazzo, un orsacchiotto, abbandonato sul lungomare di Nizza. E la bimba, o il bimbo, che fino a qualche minuto prima lo stringeva tra le mani stesa sotto un sudario, qualche metro più in là, accanto ad altri ottantasei cadaveri schiacciati sull'asfalto al grido «Allah Akbar».

Se non avessimo scordato tutto questo orrore, quegli omini piccoli piccoli che si gettavano giù dalle Torri pur di scappare all'inferno di fiamme, forse oggi non criticheremmo la determinazione degli israeliani.

Loro, che un anno fa hanno visto le mogli stuprate, i figli decapitati e appesi ai pali, i nonni ammazzati e bruciati, non hanno dimenticato dopo poche settimane. E, ancora oggi, combattono per estirpare quel male. Noi, purtroppo, ce lo siamo dimenticati. E abbiamo pure la sfrontatezza chi di giudicare, chi di scendere in piazza per celebrare il massacro del 7 ottobre.



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