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Olindo e Rosa restano all’ergastolo, le interviste non valgono nel processo. Così la Corte ha respinto l’istanza su Erba



Non ci sono nuove prove, né complotti né presunte pressioni, in grado di riscrivere la storia della strage di Erba: Rosa Bazzi e Olindo Romano (nella foto in un'immagine di repertorio Ansa del 2006) restano colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio e le interviste Tv nelle aule di giustizia sono chiacchiere nell'etere. A voler essere tranchant si potrebbe sintetizzare così le motivazioni, con cui è stata respinta dalla Corte d'Appello di Brescia l'istanza di revisione del processo per la coppia di coniugi condannati con sentenza definitiva per la strage di Erba in cui l'11 dicembre 2006 sono stati uccisi Raffaella Castagna, sua madre Paola Galli, suo figlio Youssef di due anni e la vicina di casa Valeria Cherubini. «L'istanza è manifestamente inammissibile, esaurendosi nella ripetizione, alla luce delle nuove acquisizioni (che, come si è visto, tali non sono) e nella prospettiva della falsità della prova, di doglianze già sviluppate nei precedenti gradi di giudizio e in sede d 'incidente di esecuzione».

Perché la Corte ha fissato l'udienza prima di respingere

Il testo che ripercorre il ragionamento dei giudici comincia con una “cornice” che spiega nel metodo il funzionamento del procedimento di revisione, chiarendo in base a quali regole la Corte di Appello di Brescia ha deciso di fissare un'udienzanella quale poi ha dichiarato inammissibili le richieste di revisione, avanzate dal Cuno Tarfusser allora nell'organico della Procura generale di Milano, come sostituto procuratore, dai due imputati e dal loro tutore legale: «Il procedimento di revisione», scrive la Corte d «Appello, citando alla lettera una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, «si sviluppa in due fasi: la prima è costituita dalla valutazione — che avviene senza avviso al difensore o alI'imputato della data dell'udienza fissata per la camera di consiglio — dell'ammissibilità della relativa istanza e mira a verificare che la stessa sia stata proposta nei casi previsti e con l'osservanza delle norme di legge, nonché che non sia manifestamente infondata; la seconda è, invece, costituita dal vero e proprio giudizio di revisione mirante all'accertamento e alla valutazione delle nuove prove, al fine di stabilire se esse, da sole o congiunte a quelle che avevano condotto all'affermazione di responsabilità del condannato, siano tali da dimostrare che costui deve essere prosciolto. In questa seconda fase — che si svolge nelle forme previste per il dibattimento — è consentito alla Corte di rivalutare le condizioni di ammissibilità dell'istanza e di respingerla senza assumere le prove in essa indicate e senza dar corso al giudizio di merito».

È esattamente quanto ha fatto la Corte d'Appello di Brescia, che nello stesso modo aveva agito, di fronte ad altre note e recenti istanze di revisione. In questo caso spiega di aver agito così, essendo davanti a quattro diverse istanze con molto materiale da valutare, ritenendo di dover portare a interloquire le altre parti, anche perché Francesca Nanni, capo della Procura Generale di Milano: «nel trasmettere l'istanza del dott. Tarfusser» aveva espresso il suo parere ravvisando «assenza di novità e di decisività» nelle «prove poste a fondamento dell'impugnazione, coincidenti con quelle indicate dai condannati».

DOVUTA RICHIESTE NON LEGITTIMA

La Corte d'Appello di Brescia ha bocciato la richiesta del sostituto procuratore scrivendo: «prima ancora che carente sotto il profilo della novità della prova, (…) inammissibile per difetto di legittimazione del proponente». Insomma non era titolato ad avanzarla, non toccava a lui dato che non ne aveva avuta delega da parte del procuratore generale. Proprio questo fatto gli aveva tra l'altro già procurato negli scorsi mesi una sanzione disciplinare, la censura da parte dell'apposita sezione del Csm, per aver depositato l'istanza andando contro le regole di assegnazione dei fascicoli del suo ufficio in cancelleria del Procuratore Generale, che, contraria nella forma e nella sostanza, l'ha trasmesso a Brescia «disconoscendone», scrive la sentenza, «il contenuto e chiedendo che fosse dichiarata inammissibile».

Stessa sorte ha subito nell'udienza di revisione, la richiesta del tutore dei due condannati: essendo «accessoria a quella del dott. Tarfusser» è stata dichiarata «inammissibile per inammissibilità dell'istanza principale».

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QUELLA DI OLINDO E ROSA NON AMMISSIBILE PER LA SOSTANZA

Giudicata legittima dal punto di vista del rito processuale, invece, la richiesta presentata da Olindo Romano e Rosa Bazzi è, però, dichiarata «inammissibile sotto il duplice profilo della mancanza di novità e della idoneità a ribaltare il giudizio di responsabilità penale delle prove di cui è chiesta l'ammissione»: insomma le prove non sono nuove e non sono adatte a ribaltare la condanna all'ergastolo dei due. La straordinarietà della revisione, che non è un quarto grado di giudizio, spiega la Corte si giustifica solo «in presenza di nuovi elementi, estranei e diversi da quelli del processo definito, sopravvenuti o scoperti successivamente ovvero acquisiti e non valutati, neppure implicitamente, nella sentenza passata in giudicato, sempreché in grado di condurre a un ribaltamento del giudizio di colpevolezza». Nessuna di queste due esigenze è soddisfatta secondo i giudici dalla richiesta di Rosa e Olindo.

Anche quando ci sono le nuove prove per la revisione devono avere «un elevato grado di affidabilità ed essere idonee a ribaltare l'affermazione di responsabilità penale contenuta nella sentenza di cui s'invoca la revoca». La diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi di fatto già noti «può costituire “prova nuova” solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili e sempre che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e condivise all'interno della comunità scientifica di riferimento».

Perché un'intervista non vale come testimonianza

E qui arriva una bella bacchettata a chi, malcostume diffuso di questi tempi, prova ad adoperare la Tv, in come trampolino di lancio per invocare la revisione dei processi. «Poiché una parte delle prove di cui la difesa chiede oggi l'acquisizione sono rappresentate da interviste rese a testate giornalistiche e televisive, a queste considerazioni preliminari sulla nozione di “prova nuova”, deve aggiungersi che la natura di documento dei supporti cartacei e audiovisivi di tali interviste non vale, ad avviso della Corte, a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale».

Diversamente dal testimone sentito in giudizio, un intervistato in Tv – in questo caso si era allegato agli atti di richiesta della revisione un'intervista alle Iene del consulente Claudio Cetti – : «non ha l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e non assumere alcun impegno in tal senso. Al contrario, è sicuramente condizionato dal mezzo e dalla pubblicità che esso garantisce e tende generalmente a compiacere l'intervistatore ea porsi in una luce favorevole, abbandonandosi a supposizioni ed esprimendo opinioni personali che non sarebbero ammesse in sede processuale. Nessun presidio, aldilà della deontologia dell'intervistatore, è previsto a tutela della genuinità e libertà delle sue risposte e della correttezza delle domande, che ben possono essere, in un'ottica di mero giornalismo investigativo, suggestive, insinuanti e insidiose. L'argomento vale per tutte le interviste proposte dalle difese nell'istanza di revisione e nelle successive memorie, a maggior ragione per quelle a soggetti che hanno deposto nel dibattimento di primo grado, la cui testimonianza non può essere falsificata da risposte incerte o apparentemente in contrasto con quanto dichiarato nella sede processuale deputata, offerte a distanza di quasi vent'anni dai fatti e dalla testimonianza resa in primo grado, fuori da un'auIa di giustizia, in contesti privi della “sacralità” propria del processo, senza obbligo di verità ».

NULLA DI NUOVO HA SCALFITO LE SENTENZE

Nulla di quanto presentato come “nuove prove” che secondo i richiedenti avrebbero dovuto scalfire la sentenza passata in giudicato ha convinto i giudici a rimettere in discussione i pilastri che hanno portato all'ergastolo, basato essenzialmente su tre elementi vagliati nei gradi di giudizio: le confessioni rese indipendentemente dai due condannati; le risultanze della prova scientifica che ha rilevato la presenza del sangue di una delle vittime sul battitacco della loro automobile; l'attendibilità del riconoscimento da parte di Mario Frigerio, ferito e sopravvissuto testimone oculare, poi scomparso nel 2014, che i giudici riconoscono come «testimone lucido e precisissimo» .

Non solo: «Aldilà dell'assenza di novità che caratterizza, come sopra illustrato, la maggioranza di esse, le prove proposte dai ricorrenti», hanno concluso i giudici nel dichiarare inammissibile la richiesta «inoltre, si concentrano su dati di contorno o ambivalenti, che, anche sommati e valutati unitariamente alle prove già acquisite, non sono in grado d'incrinare il compendio probatorio su cui si fonda il giudicato di condanna».

Il game over però sembra ancora rimandato, perché i legali hanno annunciato ricorso in Cassazione contro questa sentenza di inammissibilità.





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