Economia Finanza

Israele pronto a colpire l'Iran, Washington non si fida




La legge della deterrenza è implacabile. E sui fronti mediorientali è Israele a interpretarla, sin dal 1948, con la maggior audacia e sfrontatezza. Quindi poche illusioni. La risposta ai 180 missili iraniani caduti sul territorio dello stato ebraico una settimana fa non si farà attendere. E non sarà all'acqua di rose. I primi a saperlo sono gli iraniani. Lunedì notte la diffusa tensione ha fatto entrare in azione le difese aeree intorno a Isfahan provocando una serie di esplosioni che hanno seriamente allarmato la popolazione. Comunque d'ora in avanti ogni notte è buona. L'imminenza dell'attacco preoccupa non poco il capo della Cia William Burns che ricorda come «il Medioriente sia è un posto in cui succedono continuamente cose complicate». Proprio per questo – malgrado l'intelligence statunitense sia «convinta che né Israele né l'Iran vogliano un conflitto totale, esiste – dice Burns – un rischio elevato di errori di calcolo capaci d'innescare un'ulteriore escalation regionale».

Per evitare questi errori gli Usa raccomandano di concentrare la rappresaglia sugli obbiettivi militari e lasciar perdere siti nucleari, terminali petroliferi o, peggio, la dirigenza politica del paese. La tentazione di colpire i siti nucleari, a partire dai centri di arricchimento dell'uranio di Fordoz e Natanz, è un doppio azzardo. Per distruggere centrifughe e uranio arricchito custoditi in laboratori scavati a 80/90 metri di profondità Israele dovrebbe disporre delle Gbu 57 le bombe anti-bunker di produzione americana capaci, grazie ad un peso di 14.500 chili e una carica esplosiva da 2.300, di quelle raggiungere profondità. Ma quella bomba non può essere montata né sugli F15, né sugli F35, nelle versioni Raam e Adir, posseduti da Israele. Dunque il rischio è quello di un lavoro a metà che non eliminerebbe il nucleare, ma spingerebbe l'Iran a perseguire con ancora maggior determinazione l'arma atomica. E a questo s'aggiungerebbe l'ordine irradiato alle milizie sciite alleate di colpire Israele su tutti i fronti. Secondo Kayahan il giornale della destra ultraconservatrice iraniana la Repubblica islamica «raderà al suolo» in meno di 10 minuti le città israeliane di Tel Aviv e Haifa se Israele proverà a reagire.

I terminali petroliferi sono un obbiettivo altrettanto complesso. La loro distruzione da una parte ridurrebbe sul lastrico il paese, dall'altro alimenterebbe il tradizionale nazionalismo del popolo iraniano. La mossa, inoltre, sarebbe particolarmente sgradita ad una Cina diventata, nonostante le sanzioni, la maggiore consumatrice di greggio iraniano. Con il conseguente rischio di rendere ancora più saldi anche sul piano militare i rapporti tra Pechino e Repubblica Islamica. Per questo Washington raccomanda di risparmiare gli obiettivi sensibili per concentrarsi sugli obiettivi militari. Il problema è se Benjamin Netanyahu si prenderà la brigata di ascoltarlo. Quando si è trattato di eliminazione Hassan Nasrallah il premier israeliano si è guardato bene dall'accogliere gli inviti alla moderazione dell'amministrazione Biden che segnalava la possibilità di un cessate il fuoco firmato dal capo di Hezbollah. Anche per questo l'amministrazione Biden appare sempre più diffidente nei confronti del governo israeliano.

Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan durante un colloquio con Ron Derner, ministro israeliano per gli Affari strategici, avrebbe detto di esigere «chiarezza e trasparenza» riguardo alla rappresaglia contro l'Iran. Anche per le implicazioni che quella rappresaglia potrebbe avere per forze e interessi Usa nella regione.



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