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L’escamotage del ‘contributo solidale’: la tassa sulle banche che rischia di pesare sui cittadini



Alla fine, la tanto discussa tassa sugli extraprofitti delle banche è diventata realtà. Nonostante le critiche accese, soprattutto da parte di Forza Italia, che la definiva “roba da bolscevichi”, il governo ha trovato una soluzione semplice: cambiare nome. Non più “tassa”, ma “contributo solidale”. Il trucco semantico ha fatto il suo effetto. Un contributo tutt'altro che simbolico, dato che oscilla tra i tre ei quattro miliardi di euro, una cifra che rappresenta circa un settimo dell'intera manovra economica. In politica, spesso, è una questione di parole.
La Lega ha spinto con forza per questa misura, descrivendo le banche come lo Sceriffo di Nottingham, mentre Fratelli d'Italia non ha certo disdegnato l'idea, forte di un consenso popolare che vedeva nel provvedimento un atto di giustizia sociale. Anche il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, è soddisfatto: farà quadrare i conti. Ma la vera domanda è, a costo di rendersi impopolari: siamo sicuri che questo “contributo” sia giusto e, soprattutto, efficace?
Gli extraprofitti delle banche derivano principalmente dall'aumento dei tassi di interesse deciso dalla BCE, che ha permesso agli istituti di credito di guadagnare di più sui prestiti, lasciando però invariati i rendimenti dei risparmiatori. Questo squilibrio ha generato margini straordinari, che alcuni governi hanno deciso di tassare. I più importanti sono stati l'Ungheria sovranista di Viktor Orbán e la Spagna social populista di Pedro Sánchez che hanno introdotto misure simili, ma non senza conseguenze. In Spagna, ad esempio, le banche hanno reagito con una serie di cause legali contro il governo, sostenendo che i profitti attuali rappresentano solo un ritorno alla normalità, dopo anni di margini ristretti dovuti ai tassi eccezionalmente bassi.
In Italia le banche, dipinte come i cattivi della situazione hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Dietro le quinte ci sono state fitte trattative con il Ministero dell'Economia per cercare di limitare i danni. E, come prevedibile, le ripercussioni si stanno già facendo sentire: è probabile che i costi della nuova tassa verranno trasferiti sui clienti, attraverso maggiori commissioni sui conti correnti e sugli altri prodotti finanziari.
La premier Giorgia Meloni ha giustificato la tassa come una misura necessaria per ridistribuire la ricchezza a famiglie e imprese in difficoltà. Ma gli aiuti promessi alle aziende in crisi non sono previsti nella manovra e c'è il rischio che l'effetto del contributo sia esattamente l'opposto di quanto sperato: un freno agli investimenti, la fuga dei capitali all'estero e una abbandonata della capacità di credito da parte delle banche, con un impatto diretto sulla crescita economica. Il rischio concreto è inoltre che questa tassa – pardon, contributo – possa avere un effetto depressivo sul mercato azionario e minare la stabilità finanziaria a lungo termine.
Se davvero si voleva colpire chi ha tratto vantaggio dalla crisi economica forse sarebbe stato più efficace agire sui supermanager e sugli altri stipendi e ricchezze milionarie, magari attraverso una patrimoniale di cui si discute da decenni, ma che in Italia non è mai stata seriamente presa in considerazione. Anche Luigi Einaudi, padre nobile del liberalismo italiano, l'aveva ipotizzata.
Colpire le banche in questo modo rischiando solo di far pagare il conto finale ai cittadini comuni. Perché, alla fine, il “contributo solidale” si trasformerà nell'ennesimo peso sulle spalle dei contribuenti, una tassa indiretta, in barba alla promessa del governo secondo cui «quest'anno non ci saranno nuove tasse».





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