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Chi sono i preti ‘resistenti’ citati dal presidente Mattarella il 25 aprile



La storia è piena di religiosi, sacerdoti, suore, “resistenti”, che hanno unito al credo religioso l’impegno civile e aiutato anche materialmente chi si trovava perseguitato dalla dittatura in epoca fascista. Alcune di queste storie sono presenti su questo sito, tra queste la vicenda delle suore di Suore Maestre di Santa Dorotea di Vicenza e quella di don Pietro Pappagallo, trucidato alle Fosse Ardeatine. Nel discorso pronunciato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Civitella in occasione del 25 aprile del 2024 sono citati quattro sacerdoti. 


DON GIUSEPPE TONELLI, MEDAGLIA D’ORO AL VALORE CIVILE

I primi due, don Giuseppe Tonelli e don Alcide Lazzeri sono direttamente legati all’eccidio di Civitella in Val di Chiana e di San Pacrazio: una rappresaglia nazifascita in cui sono morti entrambi. A don Giuseppe Tonelli è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile il 06/05/1977 con questa motivazione: «Durante la lotta di liberazione, offriva eroicamente la propria vita in cambio di quella di numerosi suoi parrocchiani presi prigionieri, nel corso di una crudele rappresaglia, da militari tedeschi. Otteneva, però, di essere trucidato per primo. Esempio luminoso di eccezionale ardimento, di generosa abnegazione e di incondizionata fedeltà alla sua missione di Pastore. Bucine (Arezzo), 29 giugno 1944».

Della sua storia si conosce pochissimo, il suo nome compare accanto a quello di don Lazzeri in una relazione di Don Giuseppe Pesci in Il clero toscano nella Resistenza atti del convegno – Lucca 4-5-6/4/75, in cui si legge: « A Civitella della Chiana, si ebbe uno dei più feroci e gravi massacri di innocenti che quei tempi infausti abbiano conosciuto. Per tre tedeschi uccisi perirono in quel giorno duecentocinquanta uomini e, terribile nemesi della storia, fra questi anche alcuni che, per essere essi fascisti, i tedeschi avrebbero dovuto risparmiare. In quella circostanza però ogni uomo che parlava italiano doveva essere massacrato. In questa tenebra di sangue fiammeggiò allora la luce di un sacerdote, il parroco, don Alcide Lazzeri, medaglia d’oro al valore civile. Don Tiezzi, sopravvissuto alla strage, ci ha ricordato come don Lazzeri chiese ai nazisti di morire lui, lui solo, al posto dei figli innocenti: una mitragliatrice gli rispose col piombo e fece del pastore e del popolo accomunati nel sangue, un segno di sacrificio e di eroismo alto sulle colline che guardano la Chiana e il non lontano Trasimeno. In questa circostanza furono pure uccisi mons. Sebastiano Fracassi, canonico aretino ivi sfollato, il seminarista Giuseppe Pasqui, mentre, non lontano, nella frazione di San Pancrazio, insieme agli ostaggi del suo popolo, moriva don Giuseppe Tonelli».

DON ALCIDE LAZZERI, AVVIATA LA CAUSA DI BEATIFICAZIONE

  

Più nota e ricca di testimonianze la vicenda umana di don Alcide Lazzeri, servo di Dio per il quale è stata avviata una causa di beatificazione. A quanto si legge nell’editto pubblicato il giorno di Pasqua del 2019 dall’allora Arcivescovo della Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Riccardo Fontana, che invitava chi fosse in possesso di documentazione atta a sostenere la causa di renderla disponibile, don Lazzeri era nato a Chitignano il 17 settembre del 1887. Entrato giovanissimo al Convento di La Verna dei Frati Minori toscani, a 23 anni vestito il saio era stato ordinato sacerdote. Segnato dall’esperienza della Prima guerra mondiale vissuta come cappellano militare aveva chiesto di passare al clero secolare e di dedicarsi all’attività pastorale. «Avendo conosciuto tra il 1915 e il 1918 i danni irreparabili della guerra», si legge nell’editto, «fu sempre difensore della pace, insegnando la fraternità e il rispetto fra gli uomini. Il senso di odio e di vendetta da parte dei nazisti lo condussero ad una morte spietata all’interno del tristemente noto eccidio di Civitella. Il 18 giugno 1944, tre soldati tedeschi vennero uccisi per mano dei partigiani. Don Alcide si preoccupò di mostrare l’estraneità del suo popolo circa l’accaduto e, da buon pastore, ricompose le salme dei soldati e organizzò per essi una cristiana sepoltura. Poiché le comunità cristiane locali non favorivano una presa di posizione violenta contro nessuno, essendo i pastori sempre propensi a predicare la pace, l’odio verso la fede cattolica giunse da ogni parte. Il 29 giugno i nazisti, in una logica aggressiva e violenta, rastrellarono la piccola cittadina, consumando il massacro più brutale davanti alla chiesa parrocchiale, dove si stava celebrando la Messa. Il luogo sacro fu profanato da alcuni soldati urlanti che divisero i fedeli in piccoli gruppi, trascinandoli fuori con violenza. Don Alcide, in testa al primo gruppo, continuò a professare l’innocenza della gente, implorando di prendere lui al loro posto. Ma vedendo che non vi era più speranza, impartì l’assoluzione generale. Egli fu il primo ad essere trucidato, come monito per gli altri, seguito poi dalla gran parte dei presenti, di cui solo pochi riuscirono a scappare (…) La sua fama di martirio è viva ancora oggi in questa Diocesi, ha spinto il sottoscritto ad iniziare una causa di beatificazione (seu declarationis martyrii) e canonizzazione, che possa dare alla Chiesa questo esempio di testimonianza evangelica».


PADRE DAVID TUROLDO, LA RESISTENZA COME CATEGORIA DELLO SPIRITO

Altre due citazioni nel discorso del presidente della Repubblica rimandano a due religiosi certo più noti nella storia della Chiesa italiana: don Lorenzo Milani e padre David Maria Turoldo, anticipatori dello spirito del Concilio Vaticano II. Pur molto diversi nel temperamento e nella storia personale, cresciuto in una colta famiglia fiorentina facoltosa e agnostica il primo, educato alla fede e all’indipendenza di giudizio in una casa poverissima di Coderno in Friuli il secondo, strinsero amicizia attorno una visione anticipatrice della dottrina sociale della Chiesa a Firenze dove entrambi hanno vissuto tra il 1954 e il 1958.

La citazione riferita a Padre Turoldo dal Presidente della Repubblica, risale a un intervento tenuto da Turoldo il 31 maggio del 1985 all’Itis Castelli di Brescia, parte di un ciclo di conferenze intitolato La lotta di liberazione in Italia. Turoldo alla Resistenza aveva preso parte attivamente, senza imbracciare mai le armi, ma sostenendo il movimento con l’aiuto concreto mentre si trovava a Milano convento di San Carlo a Corso, dove viveva aiutato in quell’impegno dal confratello, amico di una vita Camillo De Piaz, un’esperienza che Mariangela Maraviglia, storica della Chiesa, nonché biografa di Turoldo, in un’intervista a Famiglia Cristiana online descriveva così: «Coraggio temerario nella fondazione e divulgazione del foglio clandestino L’Uomo e ancor più nella organizzazione di incontri tra forze politiche antifasciste, anche comuniste, per prospettare le linee della democrazia del futuro. Con i fascisti davanti alla porta e il comando tedesco dei trasporti stabilito nei locali del convento».

Ma “Resistenza” era per Turoldo un concetto morale e anche spirituale che travalicava gli episodi e la contingenza storica: nel saggio David Maria Turoldo. Resistenza e speranza, pubblicato in Storie di testimoni, sfide di pace Atti del Convegno del 2013 tenuto a Pistoia la stessa Maraviglia ne riferisce così: «Idea centrale nella vita e nel messaggio di padre David, su cui molto testimonierà e parlerà con la persuasione di un impegno indefettibile, cruciale per ogni vita compiutamente umana. Dirà più volte che la Resistenza non è stata solo un tragico, necessario episodio della storia recente: “Mi sembrava e mi sembra che essa non dovesse essere solo un capitolo di storia, ma una categoria dello spirito, soprattutto dello spirito cristiano”. “Spartiacque»” della sua vita religiosa e civile, la Resistenza gli appare “la scelta dell’umano contro il disumano”, il “presupposto ad ogni ideologia ed etica personale”. Se il fascismo costituiva l’incarnazione del male, la Resistenza incarnava il volto del bene e della possibile rinascita morale della società e di ognuno. Afferma: “Soprattutto per i cristiani la Resistenza doveva essere un fatto totale, segnare la conversione alla libertà dell’uomo come valore assoluto. […] Non era neppure o soltanto la cacciata dell’invasore tedesco, non era solo l’abbattimento della dittatura fascista, ma era la ricerca, il bisogno e l’attesa di un profondo rinnovamento che io oso dire spirituale, era cioè la speranza di essere uomini buoni e diversi”». 

DON LORENZO MILANI, LA RESPONSABILITÀ DEL SINGOLO DAVANTI ALL’ORDINE INGIUSTO

  

Don Lorenzo Milani, che due mesi esatti dopo l’8 settembre del 1943 era entrato in seminario, fresco di una conversione religiosa repentina e tuttora misteriosa, stava a quell’epoca, ventenne, ancora formando la propria personalità cristiana e civile. Ordinato sacerdote nel 1947, nel confronto tra il privilegio avuto in sorte per nascita e le condizioni di povertà degli operai e poi dei pastori del secondo Dopoguerra in cui si trovò a operare, finì presto per improntare il proprio ministero all’impegno contro la diseguaglianza sociale e segnatamente quella forma di diseguaglianza rappresentata dalla mancanza di istruzione di base, avendo come fari da una parte l’articolo 3 della Costituzione dall’altra parte il Discorso della Montagna.

La citazione entrata nel discorso di Mattarella del 25 aprile, risale al 1965 e alla Lettera ai cappellani militari scritta con i ragazzi della scuola di Barbiana in Mugello, dal 1954 centro assoluto del suo essere prete. Milani in quel momento ha 42 anni e sa di aver poco da vivere: la lettura sulla Nazione di un comunicato di alcuni cappellani militari in congedo che accusano gli obiettori di coscienza di viltà, è il pretesto per una lezione di scrittura e di vita, non tanto sull’obiezione di coscienza in sé come si è detto troppe volte, quanto sulla responsabilità del singolo e in particolare del cristiano davanti all’ordine ingiusto ricevuto. È quello il momento in cui Milani scrive in modo esplicito di Resistenza: «Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta” (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra:la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i “ribelli”, quali i “regolari”? (…) Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità. Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano».

Fin dal 1954 su una porta interna della canonica in cui si tiene la scuola di Barbiana c’è la scritta I care. Che cosa significhi quella scritta lo chiarisce lo stesso Milani, nella cosiddetta Lettera ai giudici, ossia la memoria difensiva che egli stesso manderà al processo per istigazione alla renitenza alla leva, all’epoca obbligatoria, che una denuncia seguita alla Lettera ai cappellani gli aveva causato.

Nel descrivere ai giudici il modo in cui quella risposta ai cappellani è maturata, scrive «Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”».

E ancora: «In quanto a me, io ai miei ragazzi insegno che le frontiere son concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religiosa. Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti. E dopo esser stato così volgarmente mistificato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l’obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l’obbedienza militare come ce la insegnavano allora?».

Il contesto storico in cui queste parole maturano è quello che segue di pochi anni la crisi di Cuba, ossia il momento più a rischio di conflitto nucleare durante la guerra fredda. È in questo contesto che si comprende la conclusione quasi apolittica della Lettera ai giudici: «Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima».





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