Le opposte visioni del mondo di Harris e Trump
Siamo agli sgoccioli. In America, la campagna elettorale si sta avviando verso la conclusione. I temi di politica interna continuano ad essere predominanti. Tuttavia, anche la politica estera sta giocando un ruolo importante, come non avveniva da tempo. Per Jeffrey Friedman e Andrew Payne (su Foreign Affairs) non poteva essere diversamente, dato che la campagna elettorale si svolge con due guerre in corso e nel contesto di una ridefinizione dei poteri internazionali. Ridefinizione promessa da una aggressiva coalizione “revisionista” (Cina, Russia, Iran e Corea del Nord) e da un “sud globale” (come Brasile e India) sempre più assertivo. Gli orientamenti dei due candidati presidenziali derivano dalla tradizionale divisione tra l'orientamento isolazionista ed internazionalista della politica estera. Tuttavia, con non pochi adattamenti. Kamala Harris è una neo-internazionalista che pensa dentro la tradizione multilaterale, mentre Donald Trump è un neoisolazionista con un istinto fortemente unilaterale. Vediamo meglio.
Harris è l'erede dell'orientamento internazionalista concettualizzato, nel secondo dopoguerra, nel documento del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato (il NSC-68 del 1950), allora diretto da Paul Nitze. Quel documento, elaborato nel contesto di una Guerra Fredda che si era ormai imposta, argomentava che l'America avrebbe dovuto stabilire la propria egemonia dotandosi di una forza militare senza equivalenti, a sua volta giustificata dai suoi valori democratici. Contrariamente a ciò che aveva sostenuto George Kennan (nel lungo telegramma che inviò da Mosca nel 1948 dove era ambasciatore), ovvero che l'Unione Sovietica andasse «contenuta», per Nitze ciò non era sufficiente per rendere il mondo «sicuro per la democrazia» . Da allora si è sviluppata una visione egemonica dell'America, benigna nei confronti dei suoi alleati (in particolare dell'Europa occidentale) e molto di meno nei confronti di Paesi (dell'America latina e del sud-est asiatico) esposti alle mire sovietiche . Essa ha dato vita ad un ordine liberale internazionale multilaterale, congruente con il multilateralismo domestico del sistema di governo americano. Pur attraverso non pochi errori, quell'egemonia ha condotto all'implosione interna dell'Unione Sovietica e alla fine della Guerra Fredda.
Il dopo Guerra Fredda ha registrato il trionfo della visione internazionalista ma anche la sua sconfitta con la fallace decisione di invadere l'Afganistan e quindi l'Iraq come risposta all'attacco terroristico dell'11 settembre 2001. Nonostante quella sconfitta, la visione internazionalista ha continuato a caratterizzare le presidenze di George W. Bush, di Barack Obama e di Joe Biden. Con quest'ultimo che l'ha interpretata come «leadership senza egemonia» (per dirla con Jessica Mathews, sempre su Affari Esteri), costruendo un formidabile sistema di alleanze, senza però rinunciare al ruolo internazionale del Paese. Un ruolo che ha registrato successi e insuccessi. Tra i primi, la gestione della risposta all'invasione russa dell'Ucraina, dovuta ad una chiara conoscenza del sistema putiniano. Tra i secondi, l'incapacità di sconfiggere i maggiori attori della crisi medio-orientale, a cominciare dal governo israeliano di Benjamin Netanyahu, dovuto ad un non-riconoscimento dell'involuzione illiberale di quest'ultimo. Harris continuò l'approccio internazionalista, riequilibrando il ruolo dell'America (in Medio Oriente) e riducendo gli impegni verso l'Europa.
Se l'Europa conterà di meno nella visione di Harris, conterà poco o nulla in quella di Trump. Quest'ultimo ha istinti isolazionisti che traduce come unilateralismo (come mostrato dalla sua presidenza del 2017-2020). Per Trump, l'America non si deve fare più carico del governo del mondo (come sosteneva Paul Nitze), ma piuttosto trattare il mondo sulla base dei propri interessi. Per lui, ogni governo (democratico o autoritario) è semplicemente un avversario negoziale. Trump non nasconde la sua ammirazione verso i leader autoritari (come ha scritto Josh Rudolph in Politica estera), ma soprattutto verso i loro governi che possono negoziare senza i vincoli interni (i controlli ed equilibri) che condizionano la presidenza americana. L'approccio di Trump è transazionale, la cui conseguenza è un mondo anarchico, e conflittuale, come quello creato dai nazionalismi del passato. La politica dei dazi indifferenziati nei confronti della Cina è destinata ad eliminare le interdipendenze con quel Paese, così riducendo gli ostacoli ad uno scontro diretto con esso. La politica di autosufficienza militare nei confronti dell'Europa è destinata a dividere quest'ultima, così riaprendo vecchie divisioni nel nostro continente. Si tratta di una replica internazionale di “homo homini lupus”, in cui ogni Stato persegue i propri interessi al di fuori di regole e convenzioni internazionali. Un sistema internazionale che spingerà verso la probabile disintegrazione dell'Europa.
Insomma, visto il ruolo dell'America, le elezioni del prossimo 5 novembre decideranno quale mondo avremo dopo di esse. Il presidente non è l'unico attore della politica estera del Paese, dovendo agire in un sistema di separazione dei poteri in cui il Senato (per le questioni militari e diplomatiche) e la Camera dei rappresentanti (per le questioni finanziarie) esercitano un'influenza rilevante. Nondimeno, attenderà al futuro presidente che stabilirà la direzione verso cui l'America dovrà marciare. E il mondo con essa.